Quando in terapia sono presenti i bambini, erroneamente s può pensare che le sedute terapeutiche possano divenire caotiche e di conseguenza non produttive.
Questo perché una serie di pregiudizi possono dominare la mente dei pazienti adulti e dei terapeuti.
Cosa si può dire davanti ai bambini?
Cosa è necessario omettere?
Come fare a parlare in loro presenza dei problemi dei grandi?
Come fare per tenerli buoni e fermi senza che si annoino per tutta la durata della terapia?
Tutte domande che si possono affollare nella mente.
Può così sembrare ovvio che non è semplice relazionarsi ai bambini in terapia.
Può sembrare faticoso sia per i genitori che per il terapeuta anche perché, in alcuni casi i bambini si oppongono, mettono caos e scompiglio nella stanza.
Alcune volte non seguono ed interrompono o non rispondono in modo adeguato alle domande che gli si pongono.
Va considerato invece che i bambini all'interno di una terapia familiare sono una grande risorsa. Sono i veri esperti delle relazioni della loro famiglia.
Le opposizioni, il caos, i commenti, le distrazioni, il linguaggio verbale e non, apre al terapeuta le porte della famiglia.
È il bambino che svela i segreti, esprime i desideri, comprende e traduce in azione la mente degli adulti.
Rimane come "intrappolato" nel bisogno di esternare un funzionamento disfunzionale della sua famiglia e spesso si “accolla” il peso di questa disfunzione.
“Un problema o una malattia di un bambino è sempre un problema familiare”. È un grido soffocato che si esprime con segnali di disagio o con veri e propri sintomi per esternare una richiesta di aiuto per sé e per la sua famiglia.
Spesso i bambini sono il contenitore delle emozioni inespresse di tutta la famiglia.
Per entrare in contatto con un bambino nella stanza di terapia, dove è presente la sua famiglia, è necessario utilizzare, un linguaggio infantile, ludico e simbolico. È necessario utilizzare il gioco e i segnali non verbali.
Il gioco rappresenta lo strumento più ricco di sfumature e più personale.
Viene considerato “una cosa seria”.
È un’attività libera, mossa da motivazioni interne che ha a che vedere con lo sviluppo della personalità, la fiducia in sé stessi e la capacità di relazionarsi.
Il bambino mentre gioca trasforma la realtà, la reinventa, la rappresenta in modo simbolico e crea un immaginario che riflette le sue fantasie, i suoi desideri, la sua realtà.
Attraverso il gioco il terapeuta restituisce competenza al bambino.
Crea l’opportunità di vivere sentimenti ed emozioni intense grazie alla relazione che si crea con degli oggetti equivalenti a soggetti e oggetti della realtà.
Durante la terapia uno dei primi passi iniziali che il terapeuta deve compiere è quello di ridefinire il sintomo come opportunità di cambiamento e ricercare insieme a tutta la famiglia i significati relazionali legati al sintomo espresso.
Che significato ha quel sintomo all'interno di quella famiglia?
Perché è comparso proprio in quel momento?
Il terapeuta per poter cogliere questi aspetti deve necessariamente dare voce al bambino e quindi spostare tutti i componenti della famiglia sul “pianeta del bambino”.
Coinvolge nel gioco, in maniera partecipativa, tutti e soprattutto sé stesso.
Il terapeuta infatti deve ricontattare dentro di sé il proprio senso e valore del gioco.
Saper giocare aiuta il terapeuta a non prendersi sul serio, ad essere flessibile, e a spostarsi da un piano generazionale all'altro.
Nel fare così, crea il consenso per gli altri di non rimanere ancorati alla funzione che ricoprono e contemporaneamente diviene l’interprete di una comunicazione fatta in due lingue diverse, quella astratta e verbale degli adulti e quella fatta di immagini concrete dei bambini.
Un’esperienza ludica con una ricca valenza simbolica consente l’accesso al mondo della famiglia visto con gli occhi dell’infanzia. Visto con gli occhi di abili osservatori del mondo adulto, occhi che mantengono sotto controllo oggetti, attributi e relazioni.
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